12 Giugno 2025

di Alessandro Ferioli – professore di Materie letterarie negli istituti superiori statali

Questo testo è l’articolo, con poche modifiche, di Alessandro Ferioli, Goffredo Mameli: Il Canto degli italiani, la Repubblica Romana del 1849, la Morte, «Noi dei Lager», LXXX, 1-2 (gennaio-giugno 2019), pp. 12-17)

Goffredo Mameli nacque a Genova il 5 settembre 1827. Il padre Giorgio, di origini sarde, era ufficiale nella Marina del Regno di Sardegna e aveva preso parte a un’ardita incursione contro la flotta del Bey di Tripoli (successivamente, servì nella Prima guerra d’Indipendenza e fu congedato anzitempo col grado di contrammiraglio); la madre era Adelaide Zoagli, discendente da due fra le più antiche famiglie genovesi.

Goffredo, educato nelle Pie scuole degli scolopi, fin da giovanissimo si dedicò alla poesia, e al termine dell’anno 1840-41 sostenne un saggio di estetica; in esso si legge, fra le altre cose, che «fonti del bello sono verità e amore», e che «l’arte è, dunque, per essenza cosa morale» (1). S’iscrisse poi, non senza qualche incidente dovuto al suo anticonformismo, all’università di Genova, dove ottenne il baccelierato nel 1847, senza però proseguire ulteriormente gli studi. Micheal Giuseppe Canale, suo amico, così lo descriveva: «fu di bella e gentile persona, di statura mediocre, di carnagione bianca, di capigliatura traente in biondo, di occhi vivi ed imperiosi, di espressione dolce naturalmente, ma fiera e risoluta quando l’anima aveva volto a qualche cosa che volesse ad ogni patto operare» (2).

Nel marzo 1847 Goffredo fu accolto nell’Accademia Entellica, dove giovani di diverse estrazioni si riunivano per discutere della situazione politica del momento; lì ebbe occasione di leggere pubblicamente alcune sue liriche. La sua poesia, che nelle prime prove era mera testimonianza di uno stato d’animo romantico, con la consapevolezza politica divenne una lirica “pedagogica”, nel senso mazziniano, ossia espressione dell’anima popolare (di cui il poeta è vate) e azione essa stessa. Sembra quindi centrato il giudizio secondo cui le liriche di Mameli, «per l’afflato religioso che vivifica il sentimento patriottico, per l’irruenza dell’impeto, per la potenza di alcune immagini, costituiscono un documento tra i più alti della nostra lirica patriottica e popolare» (3). Una di queste poesie, intitolata All’armi, all’armi! e musicata da Giuseppe Verdi nel 1848, contiene il programma mazziniano d’indipendenza e unità: «Non deporrem la spada / fin che sia schiavo un angolo / dell’itala contrada, / fin che non sia l’Italia / una dall’Alpi al mar» (4). Nella poesia Per l’illuminazione del X dicembre a Genova, ossia il testo che consacra la figura di Balilla come eroe popolare, Mameli riscopre anche la funzione della storia come creatrice di vita e d’azione: «Ei [= il popolo, n.d.R.] saluta una memoria / ma prepara una vittoria, / e vi dico in verità / che se il popolo si desta / Dio combatte alla sua testa, / il suo fulmine gli dà». Nella poesia Ai fratelli Bandiera, invece, il sacrificio dei due eroi riempie di vergogna chi ancora è sotto la dominazione straniera: «L’inno dei forti ai forti, / quando sarem risorti / sol vi potrem nomar». Sono significative anche alcune prese di posizione sulla figura di Carlo Alberto, al quale il poeta così si rivolgeva nella lirica intitolata A Carlo Alberto (1846): «o del ventuno traditor codardo / per te più d’una madre ancor sospira».

Le celebrazioni genovesi di novembre e il Canto degli italiani

Mameli fu però, soprattutto, l’autore del Canto degli italiani, un inno composto nei primi giorni di novembre 1847, e poi terminato il 10 novembre nella stesura definitiva, dopo una modifica all’incipit. L’occasione per cantarlo fu la visita a Genova del Re di Sardegna; Mameli, anzi, avrebbe scritto il suo inno proprio «per arginare la prevista alluvione di canti e di evviva per Carlo Alberto», ed esso sarebbe stato cantato il giorno 7 novembre, nel corso di una manifestazione di esultanza alla notizia dell’accordo doganale fra Piemonte, Toscana e Stato Pontificio (5). La modifica apportata con la stesura definitiva, richiesta probabilmente dal compositore Michele Novaro [Genova, 23 dicembre 1818 – 20 ottobre 1885], cambiava il primo verso da «Evviva l’Italia, / l’Italia s’è desta» in «Fratelli d’Italia, / l’Italia s’è desta». La tradizione, poi, vuole che Novaro abbia musicato l’inno in una sola notte. Il “debutto” pubblico avvenne il 10 dicembre, a Genova, davanti al santuario della Nostra Signora di Loreto, durante le celebrazioni commemorative della rivolta antiasburgica del quartiere di Portoria, in una manifestazione che richiamò circa 30.000 patrioti. Ben si comprende il ruolo cruciale della città di Genova, che attraverso i commerci era rimasta in contatto coi Paesi politicamente più avanzati, che era stata sede, dal 1824 al 1830, della direzione della Carboneria, e che aveva visto l’avvio dell’attività di uomini come Mazzini, Garibaldi, Bixio e lo stesso Mameli.

Con quell’inno, che è anche poesia, Mameli intendeva fissare i capisaldi dell’identità nazionale italiana, facendo appello a eventi storici fortemente simbolici e a valori che egli desumeva dai principi di libertà e fratellanza della Libera Muratoria e della Rivoluzione francese. I richiami alla storia italiana, difatti, sembrano iscriversi in un disegno che porta all’affermazione della dignità e della libertà, e alla cacciata dell’invasore: la figura di Publio Cornelio Scipione (vincitore di Annibale a Zama nel 202 a.C.), che Tito Livio e Machiavelli avevano indicato come modello di virtù repubblicane, tesi accolta da Voltaire; la battaglia di Legnano del 1176, che vide la lega dei Comuni trionfare sull’esercito imperiale di Federico I Barbarossa (e poco importa se altri Comuni erano invece schierati dalla parte dell’imperatore…); il fiero contegno del capitano Francesco Ferrucci, difensore della repubblica di Firenze nel 1530 assediata dalle truppe di Carlo V; la figura di Balilla (Giovan Battista Perasso?), che a suon di sassate iniziò l’insurrezione genovese contro gli austriaci, il 5 dicembre 1746, conclusa il giorno 10 con la liberazione della città; e, infine – sebbene senza troppo rispetto per l’ordine cronologico degli eventi – i Vespri Palermitani del 30 marzo 1282, che segnarono l’inizio di quella rivolta contro l’occupazione angioina che portò alla cacciata dei francesi dall’isola.

Erano, questi, concetti senza dubbio assemblati forzatamente e in un quadro un po’ confuso, ma che a un pubblico sensibile ai valori patriottici richiamavano alla memoria episodi di dignità e fermezza che potevano ben essere non soltanto ricordati, ma anche idealmente collegati alle istanze nazionalistiche di italiani e polacchi sotto l’Impero Austriaco a metà Ottocento (in seguito all’insurrezione polacca del novembre 1830 contro l’Impero russo, e alla sua repressione, la Polonia appariva difatti come l’incarnazione del principio di libertà dei popoli, e nel 1846 s’era verificata nell’Impero una sollevazione popolare polacca, subito repressa). Perciò tali episodi andarono a formare una sorta di “canone” che ispirò anche la produzione letteraria e musicale (ricordiamo soltanto La battaglia di Legnano e Les vêpres siciliennes di Giuseppe Verdi).

All’inizio del 1848 Mameli era ormai legato a Mazzini da un rapporto di stima reciproca, e appariva uno dei più promettenti interpreti del suo pensiero, mentre il suo ormai famoso inno era già conosciuto, e ostentato assieme alla bandiera tricolore, nelle manifestazioni patriottiche dei democratici. In marzo Mameli mise insieme 300 volontari, formando una compagnia intitolata a Mazzini, per partecipare alla resistenza antiaustriaca a Milano: attraverso un viaggio non facile, ostacolato per di più dall’esercito regolare, i volontari giunsero a Milano due giorni prima della dichiarazione di guerra di Carlo Alberto (24 marzo). Le vicende del reparto, inglobato nella legione Torres, furono alterne e deludenti, soprattutto per la diffidenza reciproca con le truppe piemontesi. Dopo l’armistizio Salasco, Mameli tornò a risiedere a Genova, occupandosi della direzione del giornale «Diario del popolo», attraverso cui condusse una campagna per la ripresa del conflitto. Gli articoli pubblicati in quel periodo, «rivelano un Mameli giunto a una piena maturità politica grazie all’esperienza compiuta nella guerra» (6). In quei mesi, egli soggiornò in varie città, specialmente in Emilia e in Romagna, per sondarvi la disponibilità all’insurrezione. Quando, poi, l’attenzione generale si volse a Roma, egli comprese che lì avrebbe dovuto portare la sua opera; quindi, non appena seppe della morte del Rossi, egli lasciò la Romagna per raggiungere l’Urbe, nella sua qualità di fidato emissario di Mazzini. La sua visione dei fatti era chiara: occorreva, a suo giudizio, interrompere qualsivoglia mediazione coi moderati, e puntare sul popolo (ossia sugli strati più umili della popolazione) per attuare la rivoluzione.

La Repubblica romana e il sacrificio di Mameli

Che cosa stava dunque succedendo a Roma? Il 25 novembre 1848, a seguito dell’assassinio del presidente del consiglio Pellegrino Rossi (avvenuto dieci giorni prima) e dopo un assalto di rivoltosi al palazzo del Quirinale, papa Pio IX aveva deciso di trasferirsi a Gaeta, nel Regno delle Due Sicilie (7). Nel periodo che intercorse tra quella data e la proclamazione della Repubblica romana (9 febbraio 1849), nel vuoto di potere che s’era creato si confrontarono moderati (rappresentati da Terenzio Mamiani) e repubblicani; questi ultimi premevano per la convocazione di un’Assemblea costituente, che avrebbe dovuto portare alla proclamazione della repubblica in sintonia d’intenti con i circoli democratici di Bologna, delle Romagne e dell’Italia centrale, guardando però anche a intese con il Regno di Sardegna e a collaborazioni con Venezia e Palermo che ancora resistevano. Quelle settimane videro un lavoro febbrile di azione politica, riflessione e diplomazia che fu decisivo per dare alla Repubblica la sua fisionomia.

A guidare la Repubblica fu costituito, in marzo, il triumvirato composto da Carlo Armellini, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini. Accogliendo l’appello del pontefice a ripristinare i suoi diritti temporali, però, il presidente francese Luigi Napoleone Bonaparte – anche allo scopo di accattivarsi le simpatie dei clericali francesi, che gli avevano garantito l’elezione il 10 dicembre e l’appoggio alle consultazioni politiche del maggio successivo, e per affermare una sorta di egemonia nelle faccende italiane in competizione con l’Austria – inviò un corpo di spedizione al comando del generale Nicolas Oudinot. Gli intendimenti di costui non erano del tutto in linea né con la Camera di Parigi né col suo stesso ministro della Guerra, e ancor oggi la condotta del generale francese appare ambigua. A difendere la città fu chiamato Giuseppe Garibaldi, che vi giunse il 27 aprile; al seguito dell’Eroe dei due Mondi accorsero illustri patrioti (fra questi Luciano Manara, che portò con sé 600 bersaglieri volontari).

Mameli fu a Roma non soltanto per combattere – come tutti sappiamo – ma anche per portarvi un contributo di pensiero, che è attestato dai numerosi articoli pubblicati sulla rivista «Pallade». In più interventi egli espresse la sua posizione sul papato, di cui non contestava il potere spirituale, bensì quello temporale, che a suo parere era per la Chiesa un fardello che la legava (e per certi versi la subordinava) alle potenze straniere, e al contempo costituiva il pretesto per l’intervento di queste nella politica italiana: «voi carezzate il papa re – scriveva nell’articolo Il Papa e l’Europa –, perché […] incapace di regnare colle sue armi, invoca le straniere […] e quindi apre il seno della miserrima penisola all’avidità oltremontana, che viene a dispogliarla e calpestarla a sua posta» (8). Dopo aver disimpegnato alcuni importanti incarichi organizzativi in Italia, l’ultimo dei quali fu a Genova, in occasione dell’insurrezione dei primi giorni d’aprile contro la politica rinunciataria di Torino, Mameli ritornò a Roma.

Alle ore 11 del 30 aprile le truppe del generale Oudinot attaccarono la città con 5000 uomini e 12 cannoni, ma furono respinte. L’avvenimento fu impressionante, e il generale francese propose il 19 maggio una tregua, durante la quale si riprometteva di ricompattare i ranghi e far affluire rinforzi. L’interruzione momentanea dei combattimenti coi francesi servì all’esercito della Repubblica romana, comandato dal generale Roselli (ai cui ordini Garibaldi fu sottoposto) per fronteggiare la minaccia proveniente da sud, dove un corpo di spedizione napoletano, comandato da re Ferdinando di Borbone, aveva oltrepassato il confine per metter fine all’esperienza repubblicana. In quelle operazioni, Mameli si distinse il 9 maggio, in quanto (le parole sono di Bixio) egli «primo si precipitò all’assalto delle case poste sul centro di Palestrina, e di mano sua vi uccise l’ufficiale che vi comandava» (9). Nel frattempo – e nonostante le trattative che l’Assemblea conduceva con Ferdinand de Lesseps, l’inviato del Bonaparte – il comandante francese annunciò la ripresa delle ostilità per il 4 giugno, forte ormai di 35.000 uomini e 75 cannoni. Tuttavia, i francesi attaccarono già la notte precedente, fra il 2 e il 3. La situazione, per i patrioti, era ormai difficilmente sostenibile, sia perché essi avevano appena 19.000 uomini da opporre ai francesi, sia perché quasi ovunque, in Europa e in Italia, la reazione stava riprendendo il controllo della situazione, e soltanto Roma e Venezia ancora resistevano. I soldati del Bonaparte si scontrarono con i volontari italiani a villa Pamphili, a villa Corsini e al casino dei Quattro venti, in una successione alterna di conquista e di perdita delle posizioni a causa del violento contrattacco degli italiani. A villa Corsini rimase ucciso Enrico Dandolo, mentre Mameli restava ferito alla gamba sinistra da un colpo partito dalle linee della Repubblica (10). Emilio Morosini cadde presso il convento di San Pancrazio, mentre poco distante da lui si scopriva, sotto le spoglie di un giovane bersagliere fulminato da una granata, il corpo senza vita di Colomba Antonietti, che aveva seguito, così travestita, il marito ufficiale. In quella giornata l’esercito al comando di Garibaldi perdette centinaia di uomini fra morti e feriti. Lo stesso generale, scrivendo alla madre di Mameli anni dopo, così ricordò lo slancio del giovane Goffredo: «Era verso sera di quel giorno fatale, quando Mameli, ch’io aveva trattenuto al mio fianco la maggior parte di quel giorno, siccome aiutante mio, mi chiese supplichevole di lasciarlo procedere avanti ove più ferveva la pugna, sembrandogli ingloriosa la sua posizione presso di me» (11).

Presa villa Corsini, comunque, i francesi poterono dominare la città dall’alto, e da lì cannoneggiare le posizioni dei patrioti. Dopo alcuni giorni di combattimenti accaniti, che videro gli assedianti avanzare e occupare la prima linea di difesa, il 30 giugno si combatté la giornata più dura: per i francesi era l’attacco finale, per gli italiani un’eroica e disperata resistenza, nella quale persero la vita circa 400 patrioti. Trincerato a villa Spada, Manara non volle ritirarsi, e anzi uscì all’attacco prendendosi un proiettile allo stomaco. L’Assemblea costituente, preso atto anche del fallimento degli sforzi di Mazzini per ottenere qualche riconoscimento internazionale, deliberò di cessare una difesa divenuta ormai impossibile, pur rimanendo al proprio posto. Garibaldi, invece, il 2 luglio uscì da Roma con 4000 uomini, in una lunga marcia, attraverso la Toscana, alla volta dell’Adriatico e di Venezia (in effetti, poi, si dovette fermare a San Marino, per imbarcarsi a Cesenatico alla volta di Venezia; ma, raggiunto dagli austriaci, dovette ripiegare verso Volano in una fuga dove Anita trovò la morte). Il giorno dopo, Oudinot entrò in città, proprio mentre l’Assemblea, come suo ultimo atto, proclamava la Costituzione della Repubblica, approvata due giorni prima. La Costituzione “morì” poche ore dopo la sua proclamazione, ma soltanto giuridicamente; sul piano ideale, invece, il contenuto di alcuni dei suoi articoli (il primo dei quali sanciva: «La sovranità è per diritto eterno nel popolo») sarebbero entrati nella Costituzione italiana promulgata il 27 dicembre 1947.

Mameli morì di setticemia il 6 luglio, alle 7.30 del mattino, nell’ospizio di Trinità dei Pellegrini. Quattro giorni dopo la ferita, il 3 giugno precedente, la gamba era andata in cancrena. Il 19, data la situazione, i medici avevano deciso di amputare l’arto. Nonostante la corretta esecuzione dell’intervento avesse lasciato ben sperare, però, era sopraggiunta un’infezione, e da lì la setticemia (12). Aveva 21 anni al momento della morte. Una morte affrontata serenamente, per l’affermazione d’ideali che, in quel momento, sembravano davvero incarnarsi nella Repubblica romana, la quale appariva come la realizzazione delle istanze mazziniane in una realtà che trascendeva le logiche municipali, e dove ciascuno poteva sentirsi “cittadino”. Davvero, per pochi giorni, i versi che egli aveva scritto nell’Inno militare sembravano essersi compiuti: «curvate il capo, o genti, / la speme dei redenti / la nuova Roma appar». Era la stessa fine del patriota tedesco Karl Teodor Körner, caduto anch’egli a ventuno anni nel 1813 combattendo contro Napoleone, e del poeta-soldato Sándor Petöfi, che moriva il 31 luglio di quello stesso anno in Ungheria, a ventisei anni, lottando contro i russi.

A proposito di Mameli, Mazzini osservò che egli «accoppiava i due estremi sì rari a trovarsi uniti e che Lord Byron prediligeva: dolcezza quasi fanciullesca ed energia di leone, da rivelarsi, e la rivelò, in circostanze supreme» (13). Questi due caratteri sono comuni, nella mitologia dell’eroe del Risorgimento – una sottospecie dell’eroe romantico, secondo lo storico P. Ginsborg – agli eroi modellati su Garibaldi, i quali uniscono la dolcezza al coraggio in battaglia, cui si aggiungono da un lato l’aspirazione all’egualitarismo, e dall’altro l’autosacrificio e la disponibilità ad affrontare la morte come avvio d’una spirale ascendente di realizzazione e redenzione (14). La salma di Mameli fu negata al padre che intendeva riportarla a Genova: una decisione presa, probabilmente, per evitare che riaccendesse i genovesi, i quali in aprile avevano subito gravi danni dalle truppe piemontesi in ritirata (15). La salma di Mameli, dopo molte traversie, riposa oggi nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.

Il Canto degli italiani: un inno “scomodo”

Ha scritto Scioscioli: «la poesia di Mameli è una poesia civile espressione di forti convinzioni politiche, che talvolta irrompono prepotentemente persino nei suoi più maturi canti sentimentali. E anche nell’Italia dell’età post risorgimentale non si andava tanto per il sottile quando si trattava di contrastare la diffusione di idee poco conformi agli interessi (e alle idee) dei vincitori. La sorte di Mameli è sorte comune a tutti coloro che hanno rappresentato le ragioni di una cultura rimasta soccombente nelle lotte della politica» (16).

In effetti, come ha osservato S. Pivato, «a partire dall’epilogo unitario la Marcia reale e il Canto degli italianiconvivono secondo percorsi paralleli quasi a esprimere le due principali ispirazioni del Risorgimento» (17), ossia da una parte quella istituzionale e moderata, e dall’altra quella “dal basso”, più marcatamente popolare e carica anche di memorie insurrezionali. La Marcia reale composta nel 1831 dal capobanda del Reggimento Savoia Giuseppe Gabetti, tuttavia, si prestava meglio a esprimere la fedeltà incondizionata alla monarchia di quanto non facesse il testo scritto dal giovane eroe, seguace di un protagonista del Risorgimento, ossia Mazzini, che non s’era mai sottomesso alla Corona. Inoltre, anche i duri accenti antiaustriaci di Mameli mal si conciliavano con la politica internazionale italiana, che portò all’ingresso nella Triplice Alleanza e a rapporti stretti, in campo economico e finanziario, con la Germania.

La popolarità del Canto, quindi, fu per lungo tempo insidiata da altre canzoni più “accessibili”, come Garibaldi fu ferito (sul motivo del Flic floc bersaglieresco) e La bella Gigogin (malizioso travestimento delle istanze indipendentistiche)mentre nel corso della Grande guerra gli furono preferiti altri motivi, legati alle gesta dei combattenti, come La leggenda del PiaveLa canzone del Grappa e La campana di San Giusto. Eppure Michele Campana ricordava d’essere andato all’assalto sulla cima delle Melette, il 4 dicembre 1917, intonando insieme agli arditi del suo battaglione proprio Fratelli d’Italia (18). A partire dal 1925, fu reso obbligatorio intonare, dopo la Marcia reale, l’Inno trionfale del Partito Nazionale Fascista¸ rifacimento con le parole di Salvator Gotta d’una canzone degli arditi, che a sua volta derivava da un motivo goliardico, Il commiato, scritto nel 1909 da Nino Oxilia e Giuseppe Blanc. Il Canto degli italiani, dunque, durante il Ventennio restò quindi alquanto in ombra nelle cerimonie ufficiali; non così, tuttavia, in quelle dell’Opera Nazionale Balilla, dove ne era prevista l’esecuzione subito dopo l’Inno del balilla (e ciò spiega la persistenza di una cultura risorgimentale comune e diffusa fra quei bambini che, da più grandi, si sarebbero divisi tra Resistenza e Repubblica Sociale). Eppure, la sera del 25 luglio, alla notizia della revoca di Mussolini, la reazione della piazza riesumò le canzoni del Risorgimento e della Grande guerra, evidentemente in funzione antitedesca. Così ricordava Ivanoe Bonomi: «L’inno di Mameli, l’inno di Garibaldi, la canzone del Piave sovrastano le grida di viva e di abbasso» (19).

Il Governo Badoglio sostituì la Marcia reale con un inno meno legato alla monarchia, ma che esaltava il sacrificio dei combattenti della Grande guerra: La leggenda del Piave. Tuttavia era soprattutto l’inno di Mameli ad animare la resistenza, sebbene la figura del patriota caduto nel 1849 venisse usata anche dalla propaganda della Repubblica Sociale. Pur accogliendo l’avvertimento di R. Battaglia secondo cui la Resistenza non va confusa col Risorgimento, va detto che una delle componenti dello slancio resistenziale fu costituita proprio dalla memoria degli eroi, dai testi e dalle musiche del Risorgimento, che incitavano da un lato alla rivolta antitedesca, e dall’altro alla fraternità con gli altri popoli oppressi. Fra i militari italiani internati nei campi di prigionia del Terzo Reich, rminescenze risorgimentali (e con esse anche d’un medioevo mediato dal Risorgimento) alimentarono il rifiuto di collaborare coi nazifascisti: in tal senso, l’inno di Mameli si prestò come valido riferimento, per l’immagine dell’«aquila d’Austria» che «le penne ha perdute», ma anche per la fraternità di sorte coi polacchi («il sangue italiano e il sangue polacco») (20). La comunanza d’intenti con i polacchi fu sancita, nel momento supremo del sacrificio di sé, dal maestro Salvatore Musella, allorché a Beniaminovo, malato di tubercolosi, rifiutò il rimpatrio e chiese di non essere traslato a Napoli, a guerra finita, e di poter «rimanere qui in questa martoriata terra di Polonia» (21). Il Risorgimento, insomma, pur con tutte le distorsioni storiche del caso, alimentava anche la speranza di un futuro migliore, basato su giustizia e fratellanza, e – per dirla con V. E. Giuntella – esso «appariva non solo come l’unificazione della patria, ma come la conquista dello “Stato di diritto”». In una tale visione, l’inno di Mameli chiamava quei giovani a resistere allo “straniero”. L’eredità morale di quello slancio sta anche nel verso che recita «stringiamci a coorte», evidente richiamo al «formez vos battaillon» della Marsigliese, che sottolineava l’esigenza di prendere le armi in difesa della patria, ma al contempo, preparava un progetto di pace all’insegna dell’amicizia e della solidarietà fra i popoli, quasi prefigurando un’ideale lettura degli articoli 11 e 52 dell’odierna Costituzione della Repubblica Italiana.

Dalla lunga “provvisorietà” a inno definitivo

Soltanto il 12 ottobre 1946, per decisione del Consiglio dei Ministri su proposta del ministro della Guerra Cipriano Facchinetti, il Canto degli Italiani fu adottato come inno ufficiale – ma provvisorio – della Repubblica Italiana. La scelta era necessaria, perché per il 4 novembre successivo era previsto il giuramento delle forze armate, ma l’idea proveniva da un ministro repubblicano e la discussione avvenne non senza riserve: del resto, se era vero che Mameli s’era battuto contro il papa, e onorarlo avrebbe potuto suscitare qualche perplessità in Pio XII, e se era indubbio che Novaro come musicista non era un nome illustre, a favore del poeta stava tuttavia un’esistenza che era stata essa stessa poesia – una poesia che peraltro anelava all’aiuto divino, e che nulla aveva a che fare col becero anticlericalismo di altri patrioti – e a favore del musicista l’esser stato anch’egli civilmente esemplare (era stato il fondatore di una scuola di canto gratuita).

Sempre intonato nelle cerimonie pubbliche, l’inno per lungo tempo non ha mai goduto di affezione generale, come invece sarebbe stato giusto; tant’è che spesso gli si preferirono le canzoni regionali, a conferma di un campanilismo sempre concorrenziale all’idea di nazione, e i canti politici di parte. Addirittura vi furono, e in diversi tempi, proposte di sostituirlo con altre musiche, fra cui il “Va’ pensiero” del Nabucco di Verdi (che è cantica con un lamento per la patria perduta, mentre Mameli invoca una patria ritrovata e conquistata) e Azzurro di Paolo Conte. Fortunatamente non si tenne mai il pur paventato referendum fra gli italiani per la scelta dell’inno; si svolse però nel 1981 (e questo non torna a decoro della televisione di Stato) un sondaggio all’interno del programma «Portobello», da cui emerse che la maggioranza degli italiani avrebbe preferito come inno il “Va’ pensiero”.

Fu il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, alla fine degli anni Novanta, a propugnare l’abitudine d’intonare l’inno di Mameli anche in occasioni non strettamente istituzionali: ricordiamo la sua “polemica” con Riccardo Muti per la mancata esecuzione dell’inno prima del Fidelio, alla Scala nel 1999, e quanto avvenne invece l’anno successivo, allorquando il maestro Muti fece eseguire (e intonare) l’inno all’inizio e alla fine (22). Più di recente, con la legge 23 novembre 2012, n. 222, è stato prescritto l’insegnamento nelle scuole «dell’inno di Mameli e dei suoi fondamenti storici e ideali» (art. 1, co. 2) nell’ambito di percorsi didattici dedicati al Risorgimento, mentre il successivo comma 3 della stessa legge ha riconosciuto il giorno 17 marzo (data della proclamazione dell’Unità d’Italia) quale «Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera». Soltanto con la legge 4 dicembre 2017, n. 181, però, la Repubblica italiana ha riconosciuto «il testo del Canto degli italiani di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale».

Resta, purtroppo, il fatto che i giovani non conoscono l’inno e, soprattutto, faticano a comprenderne il significato, poiché «il secolo e mezzo che ci separa dagli astrusi versi dell’inno di Mameli ha invece rivoluzionato il nostro idioma al punto da renderci straniere quelle parole» (23). I riferimenti storici (oggi non sempre trattati nella didattica) e la sintassi “aulica”, però, non devono scoraggiare dall’accostarsi all’inno, ma anzi essere sprone a studiarlo. Perciò sarebbe davvero importante che nelle scuole si ricordasse annualmente la figura di Mameli (caduto non per la Repubblica romana, ma per l’Italia unita!), e si insegnassero parafrasi e contenuti storici del Canto degli italiani.

NOTE

  1. Scritti editi e inediti di Goffredo Mameli, a cura di A. G. Barrili, Genova, Societa ligure di storia patria, 1902, pp. 441-442.
  2. «Mameli, Goffredo», Dizionario del Risorgimento nazionale, 4 voll., Milano, Vallardi, 1933, III, p. 451.
  3. Poeti minori dell’Ottocento, a cura di G. Petronio, Torino, UTET, 1977, p. 310. Le poesie citate sono da p. 311 in poi.
  4. Antologia della poesia italiana, dir. da C. Segre e C. Ossola, VII: Ottocento, Torino, Einaudi, p. 665.
  5. M. Scioscioli, Virtù e poesia. Vita di Goffredo Mameli, Milano, Angeli, 2000, p. 65 (secondo Canale, invece, l’inno sarebbe stato scritto già per la manifestazione dell’8 settembre a sostegno di Pio IX).
  6. Ivi, p. 114.
  7. G. Monsagrati, Roma senza il Papa. La Repubblica romana del 1849, Roma-Bari, Laterza, 2014; L. Rodelli, La Repubblica romana del 1849, Pisa, Domus mazziniana, 1955.
  8. G. Mameli, La vita e gli scritti, 2 voll., a cura di A. Codignola, Venezia, La Nuova Italia, 1927, II, pp. 300-301.
  9. Ivi, p. 432.
  10. Scioscioli, Op. cit., p. 175. Lo stesso Mameli scrisse alla madre il 12 giugno: «Io fui ferito da un bersagliero mentre operavamo una carica alla bajonetta» (Mameli, La vita e gli scritti, cit., II, p. 395).
  11. Epistolario di Giuseppe Garibaldi, con documenti e lettere inedite (1836-1882), a cura di E. E. Ximenes, 2 voll., Milano, A. Brigola e C., 1885, I, p. 250.
  12. S. Sabbatani, La morte di Goffredo Mameli a Roma nel 1849, «Le infezioni in medicina», XXI, 1, 2013, pp. 76-84.
  13. Dizionario del Risorgimento nazionale, cit., p. 451.
  14. P. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l’io, l’amore e la nazione, in Storia d’Italia. Annali. 22: Il Risorgimento, a cura di A. M. Banti e P. Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, pp. 58-59.
  15. M. Mulinacci, Su Genova ribelle le bombe piemontesi, «Storia illustrata», ottobre 1980, pp. 104-110.
  16. Scioscioli, Op. cit., p. 9.
  17. S. Pivato, Il Canto degli italiani: l’inno di Mameli, gli inni politici e la canzone popolare, in Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, a cura di M. Ridolfi, Milano, B. Mondadori, 2003, p. 147. Vedi inoltre T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Dal 1946 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2014.
  18. M. Campana, Perchè ho ucciso?, Firenze, Libreria della voce, 1918.
  19. I. Bonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Milano, Garzanti, 1947, p. 36.
  20. V. E. Giuntella, Mito e realtà del Risorgimento nei Lager nazisti, «Quaderni del Centro Studi sulla deportazione e l’internamento», 11, 1983-86, pp. 60-75; A. Ferioli, Medioevo internato. Suggestioni medievali nella resistenza dei militari italiani nei campi di prigionia tedeschi (1943-1945), «Quaderni medievali», XXIX, 58, 2004, pp. 115-149.
  21. R. Arcella, La mia vita concentrazionaria. Frammenti, stampa in proprio, senza data, pp. 34-35. Oggi in R. Arcella, La mia vita nei lager nazisti: frammenti 1943-1945, a cura di A.M Casavola, A. Ferioli, Roma, Gangemi, 2019.
  22. G. Battistini, Ciampi-Muti, gelo alla Scala, «la Repubblica», 9 dicembre 1999; E. Bonerandi, Scala in festa con Ciampi e Muti fa il bis di Mameli, «la Repubblica», 17 novembre 2000.
  23. M. Serra, Per favore traducete l’inno di Mameli, «la Repubblica», 7 aprile 2002.

Alessandro Ferioli